Fumata nera per le ipotesi di anticipo della liquidazione del TFS (Trattamento di Fine Servizio) ai dipendenti pubblici, anche se il pagamento differito è stato ritenuto illegittimo dalla Corte Costituzionale.
La Ragioneria di Stato ha rimandato al mittente le proposte di ridurre da un anno a tre mesi gli attuali tempi minimi di accredito della prima o unica tranche del TFR o TFS agli Statali e agli altri dipendenti della PA: i costi per risolvere i danni sono eccessivi.
In base all’articolo 3, comma 2, del decreto legge 79/1997, nel pubblico impiego il TFS viene versato a distanza di un anno dal termine del rapporto di lavoro, pagato a rate annuali se l’importo è superiore a 50mila euro (articolo 12, comma 7, del decreto 78 del 2010).
Il trattamento di fine servizio (comunque denominato) dei dipendenti pubblici viene liquidato dopo 12 mesi dalla pensione e dopo 24 mesi se il rapporto di lavoro si interrompe per licenziamento o dimissioni del lavoratore. I tempi si allungano ancora di più in casi di pensione anticipata con formule come Quota 100-102-103.
La Consulta aveva già rivolto al Legislatore un monito nella sentenza 159/2019. Lo scorso giugno, con la sentenza 130/2023 veniva dichiarato in contrasto con i diritti costituzionali il pagamento ritardato della liquidazione ai dipendenti pubblici per violazione del diritto del lavoratore (in contrasto con il principio di giusta retribuzione, che «si sostanzia non solo nella congruità dell’ammontare corrisposto, ma anche nella tempestività dell’erogazione»).
La norma censurata è l’articolo 3, comma 2, del decreto legge 79/1997. Secondo l’alta Corte, l’attuale quadro normativo è in contrasto con l’articolo 36 della Costituzione, che sancisce il diritto a una retribuzione proporzionata e dignitosa.
Il punto cruciale è la liquidazione è un elemento della retribuzione. Che fra l’altro, sottolinea la Corte, è volto a «sopperire alle peculiari esigenze del lavoratore in una particolare e più vulnerabile stagione della esistenza umana». Quindi, il pagamento eccessivamente ritardato del TFS «contrasta con la particolare esigenza di tutela avvertita dal dipendente al termine dell’attività lavorativa».
Inoltre, si legge nella sentenza, «la dilazione non è controbilanciata dal riconoscimento della rivalutazione monetaria». Tuttavia le questioni di legittimità costituzionale sono state giudicate inammissibili perché la Consulta ritiene che spetti comunque al legislatore superare questo nodo, che “in soldoni” vale miliardi.
Nel 2019 la Corte aveva segnalato in merito di TFS (pur con riferimento a un aspetto diverso), «l’urgenza di ridefinire una disciplina non priva di aspetti problematici, nell’ambito di una organica revisione dell’intera materia».
Nel 2023 si è focalizzata sul vulnus normativo legato alla tempistica di pagamento prevista e chiede al legislatore un intervento, pur con la gradualità eventualmente necessaria.
Secondo la Ragioneria Generale dello Stato non ci sono i margini economici per anticipare a tre mesi (invece di un anno) il pagamento della prima rata del TFS, nè tanto meno per aumentarne l’importo a 63.600 euro (invece di 50mila euro): il costo annuo sarebbe di 3,8 miliardi per il 2024.
In particolare, secondo l’INPS, l’importo medio lordo del TFS dei dipendenti pubblici che raggiungono la pensione di vecchiaia o i limiti di servizio è pari 82.400 euro. Costi troppo elevati che rendono impossibile l’attuazione di correttivi, neppure in modo graduale.
Da qui, la richiesta della RdS inviata alla Commissione Lavoro della Camera di non dare seguito alle proposte di legge migliorative dell’attuale disciplina.
Resta il pronunciamento della Consulta ed una discriminazione irrisolta su cui prima o poi il Parlamento dovrà intervenire.
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